Revista de Paz y Conflictos
ISSN: 1988-7221

Hillman, James (2005) Un terribile amore per la guerra (Adelphi)

Por Bernardo Venturi (Civilian Defence Research Center)

Con un’operazione tanto dolorosa quanto indesiderabile, James Hillman scrive questa opera a partire da un presupposto: la guerra appartiene al nostro essere come archetipo, è una costante della natura umana. Il generale Patton, attore e prima donna dei campi di battaglia della seconda guerra mondiale, baciando un ufficiale morente, dichiara il tuo terribile amore per la guerra, e ci introduce così in questo abisso.

Troppo spesso la guerra è stata parcellizzata, relegata a “Storia”, o, ancor peggio, a “storia militare”. Un lavoro ancora agli albori, invece, è quello della “psicologia archetipica”: i miti, la filosofia e la teologia della psiche profonda della guerra. E’ questo lo scopo che il presente libro si pone”. Il generale Patton non è quindi il solo ad accompagnarci in questo viaggio. I miti, prima di tutto. Le loro immagini, le suggestioni, la loro natura metaforica che sviscera la psiche umana, i fatti mai e sempre successi vengono riscoperti e presentati come chiavi interpretative insostituibili. Accanto a essi, troviamo le lettere dei soldati dalle trincee, le dichiarazioni negli ospedali da campo, autori classici, strateghi, e ancora letterati e generali.

La guerra è normale. Comincia così il tentativo di comprendere, come suggerisce Tolstoj, “la guerra come una sorta di forza collettiva che trascende la volontà umana individuale”. “Entrare nella mentalità guerresca è cambiare il passo. Di colpo”. Così, “è con l’autonomia della guerra come istituzione che dobbiamo confrontarci, è questa autonomia che dobbiamo spiegare.” La guerra ci appare da subito come “permanente, non irrompente; necessaria, non contingente”. Non ci resta quindi che “mandare giù la nuda verità tutta intera, senza indorarla con giustificazioni: la necessità della guerra è iscritta nel cosmo e introduce nella vita ‘intollerabile, il terribile e l’incontrollabile, a cui tutte le misure di normalità e anormalità devono adattarsi”.

La guerra è inumana. Terre contaminate, stupri, abomini, mutilazioni sono aspetti di ciò che non possiamo che vedere come disumano. Eppure, “l’inumanità è umana, troppo umana”. L’abisso tra ciò che è umano e ciò che è disumano rimane spalancato. Il soldato si affaccia alla guerra “ispirato dalla società civile, dove ancora si trova la sua anima non iniziata” prima di essere preso dall’influsso del dio della guerra, o crollare terrorizzato. Ecco che ci appare per l’inumanità della guerra un fondamento completamente diverso: “Se inumano significa immortale, <<degli dèi>>, i comportamenti incomprensibili della guerra possono essere attribuiti agli immortali, alla presenza di una potenza eterna, imperitura, e non meramente a un’assenza di virtù umane”. E ancora: “ Non sono inconoscibili; non sono il totalmente Altro. Gli dèi della guerra continuano a rivelarsi lungo tutto il corso della storia”. Per concludere, aiutati dal cattivo mastro Patton, “al di là del suo aspetto materiale di eserciti armati aleggia un che di impalpabile che domina l’aspetto materiale… per coglierlo bisognerebbe procedere come si fa nella ricerca dell’anima”.

La guerra è sublime. “Ares e Afrodite sono raffigurate insieme”. Guerra e Amore. “Troppo facile, interpretare quella coppia come una coppia di opposti”. “Marte e Venere […] rimangono una congiunzione archetipica inseparabile. […] Il mondo di orrore e di paura della guerra è anche un mondo di desiderio e di attrazione”. Così “Marte ha bisogno di Venere, la desidera e, in un modo o nell’altro, inventerà la sua presenza”. Quindi, “la guerra ha bisogno di una riserva costante di immaginazione, e l’eros è il suo combustibile”

Aprire gli occhi su questa terribile verità non significa però rassegnarsi e accettare che la guerra domini le azioni degli uomini. Anzi, proprio a partire da questa consapevolezza, dalla caduta del velo che porta a illusorie speranze che si può partire a lavorare per la pace. Ma con quale forza? Hillman invita “a minare la messa in atto della guerra, forti del coraggio che la cultura possiede, anche nei secoli bui, di continuare a cantare mentre resiste alla guerra”.

L’opera è contrassegnata inoltre da numerose digressioni, nelle quali l’autore non rinuncia a partire dall’analisi di se stesso e delle forme archetipiche e di cultura militare presenti nella sua vita fin dall’infanzia. Queste parti, aiutano anche la nostra autosservazione in questo campo, svelandoci come delle costanti e delle linee d’ombra individuate da Hillman siano ritrovabili anche nella nostra esperienza personale. Da qui si può partire per “dedicare tutta la nostra appassionata intensità” ad opporci alla guerra.

Possono essere individuati anche alcuni limiti di questa opera. Nell’ultimo capitolo, ad esempio, dedicato alla religione, vengono sottolineati importanti aspetti del rapporto tra monoteismo e guerra. Un primo limite, su questo punto, è che la religione rischia di essere considerata come categoria generica accumulabile alla guerra per alcuni elementi: “la guerra è una forza che ci conferisce senso perché fa ciò che si pensa faccia la religione: innalza la vita […]”. Inoltre, la generica idea di “fede” si sovrappone a quella di “religione”: “La fede è la minaccia che accende la forza archetipica di Marte e avvia l’imprevedibile, rovinoso corso della guerra.

In più, nel complesso, persiste la difficoltà della psicoanalisi a individuare strategie concrete, vie di azione pratiche, risultati di un qualche tipo. Può bastare un veloce riferimento alla già citata forza del “coraggio che la cultura possiede”?

Infine, un terzo limite può essere riscontrato nella mancanza riferimento a chi la pace e la guerra le ha provando ad analizzare in ottiche innovative. La peace research, per esempio, ha cercato di individuare con approcci transdisciplinari i valori sostenuti dall’ambiente militare che mancano a studiosi e attivisti per la pace.

Nel complesso, l’opera di James Hillman è caratterizzata da una forza propria rara, dal polso di un autore che vuole scrivere quella che sarà probabilmente l’ultima fatica letteraria della sua vita. Sceglie così di mettersi in gioco totalmente trasmettendo al lettore intuizioni e piste proficue. Il tutto con rigore e metodo, ma senza volere più perdersi in giri di parole, sofismi accademici e linguaggi che non comunicano fuori dal proprio guscio.

 

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